“Che cosa devo fare?”… quante volte questa domanda. Siamo poco abituati semplicemente a “stare”. Per la nostra società “stare” sembra un verbo passivo, di rassegnazione, e invece proprio non lo è. Davanti a un malato, a una persona che piange, a qualcuno che soffre o alle proprie emozioni negative occorre semplicemente “stare”. Chi soffre ha bisogno di qualcuno che “stia” con lui, che pianga con lui, non di qualcuno che gli racconti le barzellette. Il difficile è proprio lo “stare” in queste situazioni, in silenzio e a contatto con la propria impotenza. Eppure solo di quello c’è bisogno, e quella è la cosa più utile per chi soffre. Se non riusciamo è perché l’altro ci fa da specchio e ci mostra che c’è qualcosa di noi che ancora non accettiamo. Infatti occorre imparare a “stare”, “re-stare” e “sos-stare” insieme a sé stessi, insieme a tutte le parti di sé, anche quelle che meno accettiamo e alle ferite della nostra storia. Per fare unità dentro di sé, amando anche quelle parti mai amate. Non è per nulla facile. Si può imparare piano piano e il migliore aiuto è accorgersi dello sguardo di chi già ci ama, ama tutto di noi – anche le parti che noi non amiamo –, ci perdona, ci accoglie e “sta” con noi, prima ancora che noi impariamo a farlo. Da questo sguardo di tenerezza anche noi possiamo imparare a stare con noi stessi senza farci del male.